Giuseppe Maggiolini ovvero “il mobile maggiolini”
Giuseppe Maggiolini nasce il 13 novembre1738. Il padre è guardiaboschi del monastero cistercense di Sant’Ambrogio della Vittoria a Parabiago; muore lasciando orfano Giuseppe ancora fanciullo che viene accolto dai monaci e avviato al mestiere di falegname, alla pratica antica e a quel tempo ormai perduta dell’intarsio nel laboratorio del monastero. Sorta di istitutore del giovane è un erudito sacerdote di nome Antonio Maria Coldiroli, insegnate presso il locale Collegio Cavalleri che gli impartisce lezioni di disegno e i rudimenti dell’architettura. A vent’anni dispone di una propria bottega affacciata sulla piazza del paese. Nel 1758 nasce il suo primogenito Carlo Francesco; esegue, firma e data la sua prima opera oggi nota: un piccolo tavolo da gioco. E’ un artigiano formato e capace di licenziare opere di gusto milanese ma aggiornate sui modelli decorativi che andavano diffondendosi nei territori legati agli Asburgo grazie alle invenzioni di Franz Xavier Habermann stampate ad Augsburg dall’editore Hertel. Le opere successive, nelle quali la decorazione è più vistosamente affidata all’intarsio, ci mostrano un artigiano sempre più lontano dal contesto milanese e decisamente proiettato nel gusto europeo.
Caso unico nella storia secolare degli artigiani del mobile d’arte italiano, Maggiolini non ha alle spalle una tradizione familiare e per questa ragione non è un conservatore. E’ forte di un sapere antico che può essere messo a disposizione del “mobile nuovo” che in tutta Europa in quegli anni va definendosi secondo nuovi usi, tipologie e forme.
Agli inizi della settima decade si lega ad Agostino Gerli, stuccatore, decoratore dal 1769 attivo a Milano dopo sei anni di lavoro a Parigi, nell’atelier di Honoré Guibert quando questi realizzava le decorazioni del Petit trianon. Grazie a questo sodalizio, senza essersi mai allontanato da Parabiago, realizza un certo numero di mobili nelle forme squisite della Rocaille parigina, finemente intarsiati in legni policromi e caratterizzati dall’impiego dell’antica tecnica dell’intarsio rinascimentale. Maggiolini non intarsia prospettive di città, trompe-l’oeil, santi, profeti e scene bibliche ma cineserie, allegorie delle arti, scene mitologiche, ornati vegetali – questi ultimi d’impronta spiccatamente neo-rinascimentale.
Sono questi anni in cui il gusto dell’arredo muta rapidamente seguendo le nuove direttive architettoniche improntate al recupero della classicità dall’architetto Giuseppe Piermarini che, per la corte dell’arciduca Ferdinando, terzogenito di Maria Teresa, rinnova il volto pubblico e privato dell’architettura Milanese. Anche il mobilio assume forme più consone a quell’idea di neo-classicismo che da Parigi a Vienna permea l’Europa al volgere dell’Ancien regime. Le forme dei mobili guardano agli ordini dell’architettura rinascimentale, limpida e aurea; l’antica tecnica dell’intarsio ligneo si ripresenta, nelle mani di Maggiolini, perfettamente adatta alla modernità. Come per il Rinascimento l’intarsio aveva rappresentato il farsi immediatezza tecnica l’astratta prospettiva, ora nell’età dei Lumi rappresenta l’unione della catalogazione enciclopedica della natura con la bellezza artistica: incontro domestico tra natura e cultura.
Rimangono numerose testimonianze di queste intenzioni in un corpus di superstiti come anche in un Fondo di disegni, un unicum nella storia dei mobilieri europei, che annovera quasi duemila fogli frutto del lavoro della bottega ma anche commissionati a una piccola cerchia di artisti vicini a Maggiolini. Le cose più belle spettano ad Andrea Appiani, Giocondo Albertolli, Giuseppe Levati e Agostino Gerli. Rimasto integro presso gli eredi, nel 1882 fu acquistato dalle Raccolte artistiche del Comune di Milano dove ancora si conserva presso il Gabinetto dei disegni.
Agostino Gerli, Mobile d’angolo, 1780 ca. Milano, Civiche Raccolte d’Arte, Gabinetto dei disegni, Fondo Maggiolini
Nella seconda metà degli anni Settanta, assieme a Gerli in veste di progettista, realizza alcuni capisaldi del mobile neoclassico europeo: archetipi di quello che passerà alla storia come il “mobile Maggiolini”, frutto di un artigianato artistico che si andò organizzando nella bottega di Parabiago con criteri di una moderna produzione artistica. L’arciduca Ferdinando, terzogenito di Maria Teresa diventa suo principale cliente e mecenate. Del 1772 è una scrivania, ancora nelle forme della Rocaille francese e con intarsi a chinoiserie, che Ferdinando commissiona come donativo per l’augusta madre (Vienna Bundessamlung). Seguono una serie di donativi a sfondo diplomatico: una commode per il Duca di Modena, padre dell’arciduchessa Maria Beatrice d’Este oggi a Stupinigi, un tripode per la corte dello Zar, perduto ma di cui ancora esiste il progetto nel Fondo, una quadro per il Re di Polonia Augusto Poniatowski (collezione privata), uno scrittoio per la sorella Maria Carolina Regina di Napoli, un secrétaire per l’altra sorella a Parma. E’ insignito del brevetto di “Intarsiatore delle Loro Altezze Reali” e fornisce i suoi inconfondibili mobili per il palazzo di Milano, per la villa di Monza e ancora per il palazzo di Mantova.
In tutti i cantieri del rinnovamento privato milanese (Serbelloni, Anguissola, Belgiojoso) i “mobili di Maggiolini” sono elementi irrinunciabili dell’arredamento alla moda. Una coppia di commodes eseguita per il banchiere Antonio Greppi nel 1777 dove assieme a Gerli e Maggiolini troviamo Andrea Appiani che compone allegorie figurate delle virtù care al committente. Nel 1784 per il marchese Domenico Serra di Genova Maggiolini esegue una commode ricchissima, Gerli ne definisce l’impianto e Levati ne cura l’ornamentazione minuta. Il mobile, oggi perduto, è noto grazie al disegno ancora nel Fondo che ci mostra un mobile completamente incrostato di intarsi in legni policromi dove Antico e Rinascimento, arte e tecnica raggiungono la moderna sintesi. L’anno della rivoluzione francese (1789), in occasione del matrimonio tra Luigia Serbelloni e Lodovico Busca, Maggiolini appronta due commodes monumentali che sono il suo capolavoro. Li disegna Giocondo Albertolli nella parte architettonica; le tarsie allegoriche e i giochi di putti spettano ad Andrea Appiani. Si tratta di mobili perfettamente neorinascimentali in cui convivono l’intarsio e la scultura delle grandi e sensuali cariatidi femminili angolari in legno dorato e i grifi bronzei a patina scura sui quali i mobili poggiano.
Questa felice stagione creativa termina repentinamente nel 1796 quando sul piccolo ducato piomba l’esercito del generale Bonaparte. Per Maggiolini cominciano anni di difficoltà con la perdita del suo mecenate e di gran parte dei principali committenti in un panorama di perdurante e profonda crisi economica. Solo con il 1803-1804, approssimandosi a Milano, ormai stabilmente Stato satellite della Francia napoleonica, l’insediamento della corte e l’incoronazione di Napoleone, Maggiolini vide una ripresa delle commissioni per i palazzi della corte ora Imperiale. Si tratta però di opere tutto sommato minori perché il gusto della nuova corte è mutato. Il sofisticato intarsio in legni policromi, la delicata ornamentazione neo-rinascimentale su mobili dalle forme ancien-regime non soddisfa le esigenze del tracotante arredo Impero amante del mogano e dei bronzi dorati. Gusto al quale Maggiolini non si uniformò mai, conducendo la bottega con grande dignità, ma in modo stanco e ripetitivo secondo i vecchi modi. L’aristocratica committenza cittadina più ambiziosa ha lasciato il passo alla nobiltà di provincia, ai funzionari di governo facilmente arricchiti, e ai borghesi – soprattutto avvocati e medici. E così va sino al 1814, anno del Congresso di Vienna e della morte di Giuseppe Maggiolini. Ancora per alcuni anni, sotto la guida del figlio primogenito Carlo Francesco (1758-1834) che gli era sempre stato accanto nella conduzione della bottega, si produssero i “mobili Maggiolini” per una committenza sempre più minuta e provinciale; un lento crepuscolo appena nobilitato da alcuni mobili che si faranno su disegni, ancora nel Fondo, del vecchio Professor Albertolli ormai in veste Biedermaier.
© Giuseppe Beretti Riproduzione riservata
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